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giovedì 24 marzo 2016

Vrim

O que mais me assusta na ideia de te ter
é que a vida passa a ter dois tempos.
É certo que a vida sempre teve vários tempos presentes -
e que o tempo presente ele mesmo só é presente
se ele é endereçado ao futuro, feito para passar,
como um repetidor que deixa uma marca,
um sulco, um traço que vira nódoa.
Mas este endereçamento recebeu os teus olhos.
Eu sempre soube que tua importância era tão grande
que eu jamais poderia ver meu próprio presente
e todo o futuro que faz dele passado
apenas com os meus olhos. Seria preciso
que tudo isso fosse visto também por você.
Você futura, que eu não conheço
por mais que conheça em você presente
todas as marcas, os sulcos,
os traços do teu rosto quando nos meus braços
nós abraçamos as árvores
e você balbucia: é (ou eh!).
Mas é a você futura que eu não conheço
que eu oriento também meus passos
(e meus saltos, e meus galopes,
e meus vacilos).
E é um futuro indeterminado, como a de uma mensagem
que pode chegar a qualquer momento
já que nunca termina de chegar.
Você futura é uma multidão
da qual eu não vejo os rostos.
Uma falta de solidão avassaladora
me acompanha já que você existe.
Como se o meu presente não bastasse,
só porque é meu.
Na víscera do meu presente, os teus olhos
futuros - minha insuficiência de fato
não importa com quantas medidas
de suficiência de direito.
Que outros olhos futuros são estes?

Uma vez, de noite, no Parque Juarez, em Xalapa,
seis meses antes de você nascer eu pensei:
vou suportar estar tão pouco desacompanhado?

I gionani infelice (P. P. Pasolini)

Uno dei temi più misteriosi del teatro tragico greco è la predestinazione dei figli a pagare le colpe dei padri.

Non importa se i figli sono buoni, innocenti, pii: se i loro padri hanno peccato, essi devono essere puniti.

È il coro – un coro democratico – che si dichiara depositario di tale verità: e la enuncia senza introdurla e senza illustrarla, tanto gli pare naturale.

Confesso che questo tema del teatro greco io l'ho sempre accettato come qualcosa di estraneo al mio sapere, accaduto «altrove» e in un «altro tempo». Non senza una certa ingenuità scolastica, ho sempre considerato tale tema come assurdo e, a sua volta, ingenuo, «antropologicamente» ingenuo.

Ma poi è arrivato il momento della mia vita in cui ho dovuto ammettere di appartenere senza scampo alla generazione dei padri. Senza scampo, perché i figli non solo sono nati, non solo sono cresciuti, ma sono giunti all'età della ragione e il loro destino, quindi, comincia a essere ineluttabilmente quello che deve essere, rendendoli adulti.

Ho osservato a lungo in questi ultimi anni, questi figli. Alla fine, il mio giudizio, per quanto esso sembri anche a me stesso ingiusto e impietoso, è di condanna. Ho cercato molto di capire, di fingere di non capire, di contare sulle eccezioni, di sperare in qualche cambiamento, di considerare storicamente, cioè fuori dai soggettivi giudizi di male e di bene, la loro realtà. Ma è stato inutile. Il mio sentimento è di condanna. I sentimenti non si possono cambiare. Sono essi che sono storici. È ciò che si prova, che è reale (malgrado tutte le insincerità che possiamo avere con noi stessi). Alla fine – cioè oggi, primi giorni del '75 — il mio sentimento è, ripeto, di condanna. Ma poiché, forse, condanna è una parola sbagliata (dettata, forse, dal riferimento iniziale al contesto linguistico del teatro greco), dovrò precisarla: più che una condanna, infatti il mio sentimento è una «cessazione di amore»: cessazione di amore, che, appunto, non da luogo a «odio» ma a «condanna».

Io ho qualcosa di generale, di immenso, di oscuro da rimproverare ai figli. Qualcosa che resta al di qua del verbale: manifestandosi irrazionalmente, nell'esistere, nel «provare sentimenti». Ora, poiché io — padre ideale – padre storico – condanno i figli, è naturale che, di conseguenza, accetti, in qualche modo l'idea della loro punizione.

Per la prima volta in vita mia, riesco così a liberare nella mia coscienza, attraverso un meccanismo intimo e personale, quella terribile, astratta fatalità del coro ateniese che ribadisce come naturale la «punizione dei figli».

Solo che il coro, dotato di tanta immemore, e profonda saggezza, aggiungeva che ciò di cui i figli erano puniti era la «colpa dei padri».

Ebbene, non esito neanche un momento ad ammetterlo; ad accettare cioè personalmente tale colpa. Se io condanno i figli (a causa di una cessazione di amore verso di essi) e quindi presuppongo una loro punizione, non ho il minimo dubbio che tutto ciò accada per colpa mia. In quanto padre. In quanto uno dei padri. Uno dei padri che si son resi responsabili, prima, del fascismo, poi di un regime clerico-fascista, fintamente democratico, e, infine, hanno accettato la nuova forma del potere, il potere dei consumi, ultima delle rovine, rovina delle rovine.

La colpa dei padri che i figli devono pagare è dunque il «fascismo», sia nelle sue forme arcaiche, che nelle sue forme assolutamente nuove – nuove senza equivalenti possibili nel passato?

Mi è difficile ammettere che la «colpa» sia questa. Forse anche per ragioni private e soggettive. Io, personalmente, sono sempre stato antifascista, e non ho accettato mai neanche il nuovo potere di cui in realtà parlava Marx, profeticamente, nel Manifesto, credendo di parlare del capitalismo del suo tempo. Mi sembra che ci sia qualcosa di conformistico e troppo logico — cioè di non-storico — nell'identificare in questo la colpa.

Sento ormai intorno a me lo «scandalo dei pedanti» — seguito dal loro ricatto – a quanto sto per dire. Sento già i loro argomenti: è retrivo, reazionario, nemico del popolo chi non sa capire gli elementi sia pur drammatici di novità che ci sono nei figli, chi non sa capire che essi comunque sono vita. Ebbene, io penso, intanto, che anch'io ho diritto alla vita – perché, pur essendo padre, non per questo cesso di essere figlio. Inoltre per me la vita si può manifestare egregiamente, per esempio, nel coraggio di svelare ai nuovi figli, ciò che io veramente sento verso di loro. La vita consiste prima di tutto nell’imperterrito esercizio della ragione: non certo nei partiti presi, e tanto meno nel partito preso della vita, che è puro qualunquismo. Meglio essere nemici del popolo che nemici della realtà.

I figli che ci circondano, specialmente i più giovani, gli adolescenti, sono quasi tutti dei mostri. Il loro aspetto fisico è quasi terrorizzante, e quando non terrorizzante, è fastidiosamente infelice. Orribili pelami, capigliature caricaturali, carnagioni pallide, occhi spenti. Sono maschere di qualche iniziazione barbarica. Oppure, sono maschere di una integrazione diligente e incosciente, che non fa pietà.

Dopo aver elevato verso i padri barriere tendenti a relegare i padri nel ghetto, si son trovati essi stessi chiusi nel ghetto opposto. Nei casi migliori, essi stanno aggrappati ai fili spinati di quel ghetto, guardando verso noi, tuttavia uomini, come disperati mendicanti, che chiedono qualcosa solo con lo sguardo, perché non hanno coraggio, ne forse capacità di parlare. Nei casi né migliori né peggiori (sono milioni) essi non hanno espressione alcuna: sono l'ambiguità fatta carne. I loro occhi sfuggono, il loro pensiero è perpetuamente altrove, hanno troppo rispetto o troppo disprezzo insieme, troppa pazienza o troppa impazienza. Hanno imparato qualcosa di più in confronto al loro coetanei di dieci o vent'anni prima, ma non abbastanza. L'integrazione non è un problema morale, la rivolta si e codificata. Nei casi peggiori, sono dei veri e propri criminali. Quanti sono questi criminali? In realtà, potrebbero esserlo quasi tutti. Non c'è gruppo di ragazzi, incontrato per strada, che non potrebbe essere un gruppo di criminali. Essi non hanno nessuna luce negli occhi: i lineamenti sono lineamente contraffatti di automi, senza che niente di personale li caratterizzi da dentro. La stereotipia li rende infidi. Il loro silenzio può precedere una trepida domanda di aiuto (che aiuto?) o può precedere una coltellata. Essi non hanno più la padronanza dei loro atti, si direbbe dei loro muscoli. Non sanno bene qual è la distanza tra causa ed effetto. Sono regrediti — sotto l'aspetto esteriore di una maggiore educazione scolastica e di una migliorata condizione di vita — a una rozzezza primitiva. Se da una parte parlano meglio, ossia hanno assimilato il degradante italiano medio — dall'altra sono quasi afasici: parlano vecchi dialetti incomprensibili, o addirittura tacciono, lanciando ogni tanto urli gutturali e interiezioni tutte di carattere osceno. Non sanno sorridere o ridere. Sanno solo ghignare o sghignazzare. In questa enorme massa (tipica, soprattutto, ancora una volta!, dell'inerme Centro-Sud) ci sono delle nobili élites, a cui naturalmente appartengono i figli dei miei lettori. Ma questi miei lettori non vorranno sostenere che i loro figli sono dei ragazzi felici (disinibiti o indipendenti, come credono e ripetono certi giornalisti imbecilli, comportandosi come inviati fascisti in un lager). La falsa tolleranza ha reso significative, in mezzo alla massa dei maschi, anche le ragazze. Esse sono in genere, personalmente, migliori: vivono infatti un momento di tensione, di liberazione, di conquista (anche se in modo illusorio). Ma nel quadro generale la loro funzione finisce con l'essere regressiva. Una libertà «regalata», infatti, non può vincere in esse, naturalmente, le secolari abitudini alla codificazione.

Certo: i gruppi di giovani colti (del resto assai più numerosi di un tempo) sono adorabili perché strazianti. Essi, a causa di circostanze che per le grandi masse sono finora solo negative, e atrocemente negative, sono più avanzati, sottili, informati, dei gruppi analoghi di dieci o vent'anni fa. Ma che cosa possono farsene della loro finezza e della loro cultura?

Dunque, i figli che noi vediamo intorno a noi sono figli «puniti»: «puniti», intanto, dalla loro infelicità, e poi, in futuro, chissà da che cosa, da quali ecatombi (questo è il nostro sentimento, insopprimibile).

Ma sono figli «puniti» per le nostre colpe, cioè per le colpe dei padri. È giusto? Era questa, in realtà, per un lettore moderno, la domanda, senza risposta, del motivo dominante del teatro greco.

Ebbene sì, è giusto. Il lettore moderno ha vissuto infatti un'esperienza che gli rende finalmente, e tragicamente, comprensibile l'affermazione — che pareva cosi ciecamente irrazionale e crudele – del coro democratico dell'antica Atene: che i figli cioè devono pagare le colpe dei padri. Infatti i figli che non si liberano delle colpe dei padri sono infelici: e non c’è segno più decisivo e imperdonabile di colpevolezza che l’infelicità. Sarebbe troppo facile e, in senso storico e politico, immorale, che i figli fossero giustificati – in ciò che c’è in loro di brutto, repellente, disumano – dal fatto che i padri hanno sbagliato. L’eredità paterna negativa li può giustificare per una metà, ma dell'altra metà sono responsabili loro stessi. Non ci sono figli innocenti. Tieste è colpevole, ma anche i suoi figli lo sono. Ed è giusto che siano puniti anche per quella metà di colpa altrui di cui non sono stati capaci di liberarsi.

Resta sempre tuttavia il problema di quale sia in realtà, tale «colpa» dei padri.

È questo che sostanzialmente, alla fine, qui importa. E tanto più importa in quanto, avendo provocato una cosi atroce condizione nei figli, e una conseguente così atroce punizione, si deve trattare di una colpa gravissima. Forse la colpa più grave commessa dai padri in tutta la storia umana. E questi padri siamo noi. Cosa che ci sembra incredibile.

Come ho già accennato, intanto, dobbiamo liberarci dall'idea che tale colpa si identifichi col fascismo vecchio e nuovo, cioè coll'effettivo potere capitalistico. I figli che vengono oggi cosi crudelmente puniti dal loro modo di essere (e in futuro, certo, da qualcosa di più oggettivo e di più terribile), sono anche figli di antifascisti e di comunisti.

Dunque fascisti e antifascisti, padroni e rivoluzionari, hanno una colpa in comune. Tutti quanti noi, infatti, fino oggi, con inconscio razzismo, quando abbiamo parlato specificamente di padri e di figli, abbiamo sempre inteso parlare di padri e di figli borghesi.

La storia era la loro storia.

Il popolo, secondo noi, aveva una sua storia a parte, arcaica, in cui i figli, semplicemente, come insegna l'antropologia delle vecchie culture, reincarnavano e ripetevano i padri.

Oggi tutto è cambiato: quando parliamo di padri e di figli, se per padri continuiamo sempre a intendere i padri borghesi, per figli intendiamo sia i figli borghesi che i figli proletari. Il quadro apocalittico, che io ho abbozzato qui sopra, dei figli, comprende borghesia e popolo.

Le due storie si sono dunque unite: ed è la prima volta che ciò succede nella storia dell'uomo.

Tale unificazione è avvenuta sotto il segno e per volontà della civiltà dei consumi: dello «sviluppo». Non si può dire che gli antifascisti in genere e in particolare i comunisti, si siano veramente opposti a una simile unificazione, il cui carattere è totalitario – per la prima volta veramente totalitario – anche se la sua repressività non è arcaicamente poliziesca (e se mai ricorre a una falsa permissività).

La colpa dei padri dunque non è solo la violenza del potere, il fascismo. Ma essa è anche: primo, la rimozione dalla coscienza, da parte di non antifascisti, del vecchio fascismo, l’esserci comodamente liberarti della nostra profonda intimità (Pannella) con esso (l’aver considerato i fascisti «i nostri fratelli cretini», come dice una frase di Sforza ricordata da Fortini); secondo, e soprattutto, l'accettazione — tanto più colpevole quanto più inconsapevole — della violenza degradante e dei veri, immensi genocidi del nuovo fascismo.

Perché tale complicità col vecchio fascismo e perché tale accettazione del nuovo fascismo?

Perché c'è — ed eccoci al punto — un'idea conduttrice sinceramente o insinceramente comune a tutti: l'idea cioè che il male peggiore del mondo sia la povertà e che quindi la cultura delle classi povere deve essere sostituita con la cultura della classe dominante.

In altre parole la nostra colpa di padri consisterebbe in questo: nel credere che la storia non sia e non possa essere che la storia borghese.

[Pier Paolo Pasolini, Lettere luterane. Roma 1991, 5-12.]

[http://www.guardabassi.it/download_05_11_07.asp]

venerdì 4 marzo 2016

Ars prosaica

Escrever é um artifício no tempo.
Dichtung é complicação das asas,
explicação das asas é grande narrativa.
Blog é uma batida da asa, ou fica
meu carburador escondido
comprimindo
o ar que sai das asas que nem vejo?
Os diários do Leonilson: uma confissão
guarda muito
porque guarda
noites e dias de uma vida?

Eu gosto do tempo das bicicletas.
Apenas o tempo de ver dois olhos
de ameixa do menino que sorri
na parada de ônibus.
Queria fazer um filme sobre a invasão
das Américas:
um filme sobre uma felicidade nas aldeias
que viesse com a passagem dos anos
numa legenda: 1480, 1490, 1500, 1510.
Nenhum outro drama senão
a passagem dos anos.

O passado são as asas, a ameixa,
o gravador, a passagem dos anos.
O presente complica tudo e escreve
para um leitor que é uma escultura
na única pedra-sabão que temos.
Svetlana Alexièvich diz que escreve
para que o leitor não seja abatido,
não deixe o livro na estante
sem ler.
Ela não é uma médica. Ela inventa
a dor, nervo por nervo. Escreve.






mercoledì 2 marzo 2016

Monster Poem - Dennis Saddleman


(Came to this poem while watching this talk by Suzzanne Simard

I hate you residential school, I hate you,
You're a monster,
A huge hungry monster,
Built with steel bones. Built with cement flesh,
You're a monster,
Built to devour innocent native children,
You’re a cold-hearted monster,
Cold as cement floors,
You have no love, no gentle atmosphere,
Your ugly face, your monster eyes glare from grimy windows,
Monster eyes through evil, monster eyes watch and terrify children, who cower with shame.

I hate you residential school, I hate you.
You’re a slimy monster, go away you’re following me wherever I go,
You’re in my dreams, in my memories, go away, monster, go away,


I hate you, residential school, I hate you.
You’re a monster with huge watery mouth, mouth of double doors,
Your wide mouth took me, your yellow-stained teeth chewed the Indian out of me,
Your teeth crunched my language, grinded my rituals and my traditions,
Your taste buds became bitter when you tasted my red skin,
You swallowed me with disgust, your face wrinkled when you tasted my
strong pride,


I hate you residential school, I hate you.
You’re a monster. Your throat muscles forced me down to your stomach,
Your throat muscles squeezed my happiness, squeezed my native ways,
And you throat became clawed with my sacred spirit,
You coughed and you choked and could not stand my spiritual songs and dances,


I hate you, residential school, I hate you.
You’re a monster, your stomach upset every time I wet my bed,
Your stomach rumbled with anger ever time I fell asleep,
Your stomach growled at me very time I broke the school rules,
You didn’t care how you ate up my native culture,
Your veins clotted with cruelty and torture,
Your blood poisoned with loneliness and despair, your heart was cold,
You put fear into me,


I hate you residential school, I hate you.
You sqeezed my confidence, squeezed my self-respect,
Your anals squeezed me and then you dumped without parental support,
Without life skills, without any moral character, without individual talents, without a hope of success,


I hate you, residential school, I hate you.
You’re a monster.
You dumped me in the toilet and you flushed out my good nature,
My personality, I hate you, residential school, I hate you.
You’re a monster.
I hate, hate, hate you.

SOURCE: http://canadianchildabusewatch.com/monster-poem.html

martedì 1 marzo 2016

O dono do cemitério

Quando virou dia no céu,
uma onça apareceu no quintal,
ficou atrás da mangueira caída
e em silêncio olhou para longe,
para a tina de água cheia de barro,
para os gravetos secos
e para a pequena casa,
onde eu estava na janela.
A tina já tinha sido uma fonte
e as crianças colocavam os pés
e batiam gotas para a terra nos dias de calor
que passaram.

A onça rondava os gravetos da mangueira caída
como uma predadora, ou como uma cobra
que se instala no passado de um bote.
Ela estava diante da minha janela,
repartindo a mesma manhã sem abelhas.

Era uma falta de barulho que ela entendia,
voltava do córrego onde também as vacas eram levadas
no fim da tarde, e se abstinham de beber água,
olhavam em volta, como se não vissem o que precisavam
ver e se retiravam. A água recusada.
A onça também não via o que precisava ver,
e sabia que não via. Escutava o silêncio
das abelhas, como eu, na mesma terra
fechada a chave.

Contaminada.

Como eu poderia lhe contar que já não era eu
que poderia lhe caçar, que também no balde de água
ao lado da tina, e na torneira do tanque,
e na poça de água que escorre do cano,
também não havia água,
porque não há água na água?
Como eu poderia lhe contar que já era a água,
a água que era minha e dela, a água repartida entre nós
mesmo com a nossa indiferença,
era a água que eu havia caçado?
E que era a água mesma do córrego
em que ela bebeu todos os dias
que agora a caçava e que caçava
também a mim?

Eu olhei a onça como se o silêncio
contasse que a constituição mudou,
eu tinha rompido o mais consensual
dos contratos sociais com a mangueira,
com as abelhas, com as vacas e com ela.
E que agora vivemos sobre um outro direito,
eu não sou mais o dono do balde da água,
ou da tina cheia de barro, eu sou o dono
do cemitério.

No silêncio, ela sabia.
Ela só não sabia que os refugiados
da nova constituição humana na terra
não tem refúgio.